La negazione della comunicazione come comunicazione della negazione.

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Fu mai scritto che le neoavanguardie musicali del secolo scorso (quelle musicali soltanto?) profusero torrentizie orge narcisistiche sostanziate d’enfasi comunicativa, ancorché negativa?
Fu mai autorevolmente scritto che il rifiuto di una musica accostabile non fu riferibile al bisogno di sottrarsi al mercimonio della musica di consumo bensì per praticare il mercimonio di una musica scaturita da inclinazioni autistiche? L’ideologia – “oppio dei popoli” – confuse le menti: primariamente quelle dei creatori di un nulla (non quello leopardiano) con il quale cullare le proprie onanistiche ambizioni: quelle per una musica a portata di qualsivoglia poetica, purché ammantata di filosofia d’accatto?
Fu mai scritto che quella musica non è più ascoltabile da chi la musica ama?
Fu mai scritto che non fu l’asperità intellettuale della nuova musica a renderla inaccostabile ad ogni tentativo di conoscenza?
Fu mai ammessa la perseguita negatività comunicativa di tanta nuova musica? Di essa si comprende, benissimo, il suo diniego dell’ascolto; il rifiuto di essere captata come “arte dei suoni”; il suo sentenzioso ergersi ad avanguardia di sprovveduti compositori e perplessi ascoltatori. La vomitò un sedicente progressismo che rivela, ora e finalmente, la sua supponenza. Pochi si sottrassero alle sterili escogitazioni ideate da un parossistico intellettualismo: i vocati alla musica e non alle sole poetiche. Soccombettero i vocati alla logorrea e all’orpellatura filosofica.

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La comunicazione – in musica e nell’arte in genere – non è da perseguire né da negare. Chi la persegue ne manipola la fluente spontaneità, praticando il meretricio e dunque la sua negazione. Chi la nega si consegna alla radicale contraddizione di ciò che vorrebbe negare: esprime con soverchievole enfasi il suo diniego che risulta pertanto comunicato suo malgrado.

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Fra il recente neotonalismo consumistico e la radicale sperimentazione linguistica delle neoavanguardie musicali (quelle degli anni Cinquanta del secolo scorso) c’è significativa specularità: si privilegiano pregiudizialmente i mezzi linguistici utilizzati e non gli esiti da essi ricavati e ricavabili. Nella conoscenza reciproca le persone non si percepiscono per il loro DNA ma per la personalità e il carattere che si auto-etero-determinano a decorre dal codice genetico: inattingibile se non scientificamente. Una musica che si limitasse a coincidere con il proprio DNA sarebbe deterministica a tal punto da prescindere dall’autore per richiedere un mero intervento maieutico. I genitori di un nascituro non sarebbero la coppia che si accoppiò ma la levatrice. Ma che cosa estrarre da un grembo non fecondato?

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È stato umiliato, vanificato, annichilato l’ascolto. Un fruitore acculturato non riuscirebbe a penetrare brani come il I Libro delle Structures di Boulez o i Klavierstücke I-IV di Stockhausen più di quanto non vi riuscirebbe chi non ha adeguata preparazione. Quelle musiche non sono conoscibili in sede d’ascolto. Né lo sono in altra sede. Agisce un pensiero alieno: un’assenza della fisionomicità della musica come arte dei suoni. Quando Stockhausen propose sincronie nelle quali il pollice del pianista doveva emettere un p, l’indice un mp, il medio un mf e cosi di seguitoci si trovò in presenza di una scrittura musicale che non avrebbe avuto difficoltà ad essere eseguita da un computer, ma non poteva essere proposta ad un pianista. O si è incompetenti nell’affidare al pianista ciò che il pianista non può eseguire; o ci si è avviati verso una musica da destinare all’informatica. Due esiti indifendibili. Si determinò una equivoca sovrapposizione fra incompetenza e utopia. Si lodò la seconda. Non fu stigmatizzata la prima. Sino all’Ottocento, compreso, la dissociazione fra compositore e interprete era sconosciuta. Chi componeva era anche esecutore. Chi eseguiva era anche compositore. Colui che interpretava la propria musica ne governava il radicamento nella realtà. Non si progettavano composizioni ineseguibili. Si poteva eccellere in uno dei due aspetti, ma non esisteva la figura del solo-esecutore o del solo-compositore. Questo costituiva un fisiologico argine all’esercizio dell’astrazione. Chiamato a eseguire le proprie musiche il compositore-interprete avrebbe esperito l’ineseguibilità della propria ideazione in quelle opere concepite in termini di astrazione massima e pertanto generatrici d’ineseguibilità e inascoltabilità delle stesse.

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Ci fu un’edizione della Biennale Musica a Venezia in cui, intendendo celebrare un noto compositore inglese, fu esaltata l’‘ineseguibilità’ della sua musica, quale segno di mirifica utopia. In un caso come questo, basta togliere le virgolette alla parola ‘ineseguibilità’ ed essa diventa immediatamente ciò che è: un disvalore. Il senso della nozione di ineseguibilità vale esattamente per quello che è: ‘ciò che non può essere eseguito, non può essere suonato e quindi udito e compreso’. È chiaro che nessun autentico musicista può accettare tutto questo. Si tratta di una deprecabile aberrazione. Se, per contro, leggiamo la sperimentazione linguistica come un sospingimento nella direzione del nuovo, allora la sperimentazione arricchisce la composizione. La sperimentazione deve però produrre successivi esiti convincenti e fruibili all’ascolto. Altrimenti si corrompe in ricerca fine a se stessa. E non si tratterebbe di educare l’ascoltatore a comprendere qualcosa che si colloca al di qua o al di là della sensazione estetica. L’ascoltatore non potrebbe comunque mai conoscere ciò che sente perché ciò che sente non è destinato ad essere conosciuto.

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L’utopia non è un disvalore. Se però l’utopia diventa affezione a qualcosa di talmente irraggiungibile e privo di una vigorosa accelerazione verso il nuovo, tale utopia produce esiti talmente astratti che sconfinano nel velleitarismo o, peggio, nel solipsismo. Le neoavanguardie degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta hanno percorso un itinerario senza meta per la deviata intenzione di non porsene alcuna. Non si vuole sottovalutare ciò che le avanguardie ci consegnarono in termini d’invenzione linguistica. Si vuole limitarne la feticizzazione. Si ricorra ad una metafora: la conoscenza del DNA di una persona, per quanto imprescindibile fondamento della sua esistenza, non promuove la conoscenza di quella persona.

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Il rapporto con il passato musicale e la storia fu letto variamente dal movimento moderno all’interno di due prospettive estreme. Prima prospettiva: il passato può fornire un vitale slancio ad una consapevole creatività. Seconda prospettiva: il passato può divenire occasione d’irrigidimenti dogmatici, ossia di accademia, di ortodossia. Il rapporto col passato può essere proficuo o inibente secondo il modo con il quale al passato ci si dispone. Se nei confronti di esso si ha un rapporto di sudditanza, non si può che ribellarvisi. Se viceversa lo si percepisce meno rigidamente, e lo si considera una fonte ispiratrice, ecco che può diventare occasione di arricchimento. Il problema non è dunque il passato o il presente; ma come li si vive. Come l’autore lo invera. La stella polare fu osservata tante volte quanti furono i viandanti e i naviganti che si avventurarono verso l’ignoto. Ma con itinerari e mete sempre diverse.

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Quando si enuncia l’opportunità di rivalutare il ruolo dell’ascolto compare, puntuale, qualche sociologo o critico che addita come meretricio l’aspirazione a ricondurre la composizione ad arte dei suoni.

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Sino all’op. 21 (1912: Pierrot Lunare), Schoenberg fu un grande compositore. Successivamente e fino all’op. 31 esclusa, (le Variazioni per orchestra), fu visitato da ossessioni linguistiche. Privo della tonalità e senza un nuovo codice formalizzato (la sua dodecafonia), non se la sentiva di comporre. Prima di formulare l’ipotesi dodecafonica vi fu un lungo silenzio. Stravinskij non sentì il bisogno di un tale formalizzazione preventiva e propedeutica al comporre.
Salvatore Quasimodo, scrisse: “I filosofi, i nemici naturali dei poeti”. Il rapporto tra critici e compositori non è diverso. La captazione dei critici è di tipo discorsivo, ma se c’è un’arte ineffabile è proprio la musica.
La proliferazione di codici e la perdita dell’unico codice occidentale condiviso, la tonalità, non fu volontaristica o non fu soltanto tale: accadde, inverando la metafora babelica per cui ciascuno parla una propria lingua e non ci si capisce.
Non è realistico pensare di istruire il pubblico a comprendere il codice di un compositore, sapendo che un altro compositore ne utilizza uno diverso. Ascoltando la musica tonale, chi ascolta si rende almeno conto che quel codice gli è noto. Nelle neoavanguardie musicali si osservò invece una proliferazione dei codici tale per cui non solo ci furono tanti codici quanti furono i compositori, ma ci furono più codici all’interno delle opere di uno stesso compositore. In una tale situazione il rapporto col pubblico è irrimediabilmente compromesso. Stravinskij scriveva: “Soltanto delimitando un area, io conosco la mia libertà dentro quell’area”. Al codice non si può rinunciare, ma non bisogna renderlo coincidente con l’opera. Su Fase Seconda Mario Bortolotto enunciò: “Il compositore dovrebbe limitarsi a estrarre dalla materia musicale ciò che è ad essa immanente” I compositori – artigiani ancor prima che artisti – non credono a queste fandonie.

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Una terza istanza postmoderna archivia l’idea che esista una sola storia e una sola utopia, ponendoci di fronte a un presente plurale in cui la conciliazione di diverse ragioni può risultare al contempo auspicabile e demotivante. C’è una soglia oltre la quale la disponibilità ad aprirsi può diventare eccessiva rinuncia alle proprie motivazioni. Assistiamo a forme di pluralismo. Parlare di ‘meticciato’ è come fregiarsi di ‘progressismo’. È anche una moda, da guardare anche criticamente. Ed essere aperti a tutto sembra davvero impossibile. Una qualche identità, geografica o culturale, non possiamo non averla. Bartók rinverdì la propria invenzione attingendo alla musica popolare ungherese. Il guaio è che la musica popolare non esiste più. Oggi imperversa la musica di consumo che è altra cosa.

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Non è credibile che Keith Haring o Jean-Michel Basquiat siano i massimi pittori esistenti. La loro infelice esistenza (droga, morte precoce, omosessualità, dissipazione di se stessi) appaga l’inconfessato bisogno di sregolatezza presente nelle persone sedicenti “per bene”. Il loro successo è il frutto avvelenato di abili escogitazioni di un mercato, cinico e astuto, che li ha imposti.

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Essere giullari del proprio solipsismo non è più nobile di essere giullari altrui. È solo più autistico. Di musica stimabile se ne è udita e prodotta abbastanza nella stagione linguisticamente sperimentale delle neoavanguardie musicali. È tempo di crearne di amabile: come fu sempre la grande musica. Con doverosa onestà intellettuale occorre ammettere che la sedicente libertà e autonomia dei compositori – eredi delle neoavanguardie musicali – è simile a quella del disoccupato: al quale nessuno chiede di recarsi al lavoro. Ma proprio perché disoccupato può esercitare la sola libertà di sopravvivere, miseramente. Non è ambita la libertà di essere ignorati, inascoltati, negletti. Meglio sarebbe vedersela con i committenti – fatalmente allontanati da arroganti vezzi narcisistici – con i quali si confrontarono i grandi del passato di tutte le arti. Arvo Pärt ha scritto musica di sottofondo per alcuni aeroporti: destino migliore di quello di eleggere i polverosi cassetti delle proprie cantine a meta di un esercizio creativo fortemente sospetto di autismo. Meta ambita soltanto dai mediocri che si sottraggono così al confronto con i fruitori. Basta con le prime esecuzioni coincidenti con le ultime. È il funesto privilegio al quale converrebbe rinunciare senza pronarsi al successo ad ogni costo.

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La scelta di tecniche compositive producenti esiti riottosi all’ascolto (caratteristiche delle sperimentali neoavanguardie musicali) parve scaturire anche dal rifiuto di molti compositori nei confronti delle ultime propaggini di una languente tradizione tonale, gravida di una espressività ormai divenuta mera stimolazione lacrimogena. Al pari delle cipolle. Tale era la condivisa tesi sostenuta dagli adepti musicali delle neoavanguardie menzionate. I compositori si convinsero di potersi sottrarre alla comunicazione larmoyant adottando tattiche compositive atte a produrre la sua radicale negazione. Non si avvidero che la meta perseguita, il diniego di qualsivoglia degradata soggettività, era inattuabile e soprattutto massimamente e contraddittoriamente soggettiva e comunicativa. A somiglianza di un paziente affetto da autismo (dal quale promana un flusso di enorme, devastante comunicazione, ancorché negativa) i compositori tentati dalla negazione della comunicazione proposero opere talmente e disgustosamente comunicative da indurre i fruitori ad abbandonare il loro ruolo di pazienti ascoltatori. Assediati da un’alluvione d’inarginabile comunicazione negativa e fuorviati da una saccente saggistica di supporto si rassegnarono a “riconoscere” il già noto e a rinunciare a “conoscere” l’ignoto proposto dalle neoavanguardie musicali. Infatti, contrariamente a quanto fu consolatoriamente creduto e sostenuto, chi rifiutò la ‘conprensibilità’ di certa nuova musica comprese benissimo l’attitudine solipsistica e, peggio, autistica di quella musica.

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Ci si accorse però che alla comunicazione non ci si sottraeva: soprattutto quando ci si determinava ad estrometterla con molteplici e fallimentari tattiche. Come insegnò un memorabile libro della californiana Scuola di Palo Alto (La pragmatica della comunicazione umana) la “negazione della comunicazione si risolve in comunicazione della negazione” Tanto valeva né propiziarla né opporvisi. Al compositore si addice riappropriarsi delle vere e uniche sue competenze. Fra le quali non alligna né la comunicazione né la sua negazione. Postulata l’impossibilità d’essere ‘incomunicabili’ si ritorni a quel nobile artigianato che fece grandi i compositori non impegnati a comunicare a tutti i costi, né a tutti i costi protesi a negare la comunicazione. Come insegnò Stravinskij. L’unica comunicazione degna e apprezzata come tale è quella spontanea e spontaneamente scaturente da un sublime artigianato: perseguente se stesso e non il mercimonio o il rigorismo asettico.

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Non tutti sono insensibili ad azioni culturalmente risanatrici. Risanatrici ma non “avanguardistiche”: aggettivo, quest’ultimo, massimamente ambiguo, come ognun sa. Si torni fra i propri simili e nella loro realtà. Non per compiacerli ma per non compiacersi di non appartenervi. Molti in Europa e nel mondo vorrebbero amare una musica del presente che non fosse quella dei festival – orpellata di sofisticherie pseudofilosofiche – o quella delle trombe degli stadi calcistici: luoghi nei quali obnubilanti parole e osceni suoni imperversano.