La retorica di Ofelia.
Un aspetto della poetica di Anzaghi, particolarmente evidente nelle opere sino al 1983, è l’eufonia e l’attitudine a risolvere in modo onirico ed estatico il tracciato compositivo. Tale eufonia non è però edonistica ma sostenuta da un’altra convinzione dell’autore: istanze angosciose possono, con consapevolezza retorica, essere efficacemente deviate verso esiti soavi che accogliendo l’angoscia stessa ne presentino il volto “perverso”. Così come la “reticenza” è figura retorica che, non meno della “iperbole”, enfatizza ciò che viene taciuto, un’ossessiva e allucinata eufonia è un modo possibile per testimoniare un vissuto angoscioso. Anzaghi vede una prova di ciò nel personaggio di Ofelia (nell’Amleto scespiriano) la quale, diversamente dal protagonista, fa parlare la propria disperazione con il linguaggio della grazia e della soavità. Il titolo di un lavoro cameristico di Anzaghi è appunto Soavodia.

Libertà e prigionia
La tecnica compositiva adottata da Anzaghi a partire dal 1984 è influenzata dal pensiero pitagorico con il conseguente privilegio accordato al numero: gl’intervalli sono discriminati in pari e dispari e solo quest’ultimi dotati di una nota centro. Ma lungi dall’affermare una sorta di poetica scientista, il ricorso al numero è mezzo per arginare quella pseudosoggettività che contrabbanda rigurgito per spontaneità, scrosci di banalità per flussi ideativi, spudoratezza per urgenza espressiva. Tanto vale opporsi alla finzione di essere soggettivamente liberi e rinchiudersi in una prigione numerica: in tal modo si vedono meglio i confini della propria libertà. Fuori non si percepirebbero quelli della prigionia.

Codice pitagorico-seriale e sua presenza nella produzione di Anzaghi
A decorrere dal 1984, l’autore avviò una fase compositiva che, deviando dalla precedente (caratterizzata da un’aura di soave oniricità), proiettava sistematicamente i precedimenti compositivi su uno schermo ideale di geometrie intervallari, dove assi di simmetria e rapporti numerici governavano le successive orditure. La presenza del numero nella musica è, d’altra parte, condizione troppo nota perché valga la pena di essere additata.
Dal 1984 divenne impossibile per l’autore scrivere una nota che non appartenesse ad un universo di relazioni che la precedessero e in virtù delle quali quella nota non fosse soltanto un suono o un suono “solo”, ma divenisse fonema di una tessitura linguistica che potesse ancora consentire un procedere orientato e connotato, in quanto costantemente riferibile al proprio codice generativo.
Il compositore esplorò le possibilità implicite nella natura degli intervalli che, distinguendosi in “pari” e “dispari”, ammettevano due diverse elaborazioni. Gl’intervalli dispari (non divisibili per due all’interno della scala cromatica temperata) davano origine ad un centro, equidistante dagli estremi. Gl’intervali pari, privi di centro, potevano invece essere divisi (anche per due) o moltiplicati per numeri interi. Da questo assunto scaturivano molteplici proprietà, che si componevano in una organica trama di possibilità.

A proposito dell’insegnamento della Composizione
Nei Conservatori italiani un orientamento più autoritario che autorevole prescrive che l’insegnamento della composizione non possa prescindere da un’imitazione del passato. Tale passato viene retrocesso a stagioni così arcaiche della composizione che non ci si può esimere dal chiedersi se partendo da così lontano si arriverà mai in prossimità del presente. I sostenitori di un apprendistato compositivo che dovrebbe cominciare “almeno” da Palestrina hanno mai letto le limpide parole di Stravinskij?:
I. Stravinskij
«…io ritengo che, anche da un punto di vista pedagogico, sarebbe più giusto cominciare l’educazione di un allievo attraverso la conoscenza dell’attualità e di risalire, solo in un secondo tempo, i gradini della storia. Francamente, non ho nessuna fiducia in coloro che si dan l’aria di fini conoscitori e d’ammiratori appassionati dei grandi pontefici dell’arte, onorati, con una o più stelle, nel Baedeker e con un ritratto, del resto irriconoscibile, in un’enciclopedia illustrata, e mancano, nel contempo, di qualsiasi comprensione per l’arte dei nostri giorni. Invero, qual credito merita l’opinione di coloro che cadono in estasi davanti ai grandi nomi, quando poi, trovandosi di fronte ad opere contemporanee, mostrano un’ottusa indifferenza, oppure un’evidente simpatia per la mediocrità e i luoghi comuni?».

Ideologia e Arte
L’ideologia – qualunque essa sia – non sembrerebbe garantire il buon esito di un’opera, men che meno la sua sublimità. Per la buona ragione che l’eccellenza dell’opera non attinge alla stessa fonte dell’ideologia. Ciò premesso e con tutte le eccezioni che questa riflessione implicitamente postula si sarebbe inclini a concludere che tante polemiche ideologiche intorno all’arte non ne hanno facilitato né la pratica né la comprensione. Semmai ne hanno impedito l’accesso a chi non ne aveva una forte vocazione. Cattive permangono quelle opere che ancorché orpellate di buona ideologia nacquero di cattiva qualità. Buone opere, nate sotto cattiva stella ideologica, restano buone. A queste parole è estraneo l’intendimento di gettare discredito sull’ideologia in quanto tale. Ad esse basta insinuare il dubbio che ideologia e arte non discendano, dalla stessa costola.

Non si ha certo la pretesa di dirimere qui la polemica estetica fra novatori e tradizionalisti. Ma chi pretendesse di confondere l’adozione di mezzi linguistici – nuovi o tradizionali che siano – con un valore assoluto, e tale da travalicare la semplice descrizione filologica che quell’adozione giustifica, si voterebbe ad uno sterile esercizio. Nessun ottimismo neoterico dunque (“il nuovo è bello”); nessun ostracismo misoneista (“il vecchio è brutto”). E viceversa, ovviamente.

Salvatore Quasimodo scrisse a proposito dei filosofi essere questi ultimi “…i nemici naturali dei poeti”. Con la lapidaria affermazione il poeta intendeva sancire l’inconciliabilità e irriducibilità reciproche della conoscenza discorsiva e razionale (“dianoetica” avrebbero detto gli antichi) e la conoscenza intuitiva (o “noetica”). Dove collocare l’ideologia è quesito che si consegna alla sagacia altrui. Ci si limita a segnalare che l’uso scomposto e cruento che dell’ideologia è stato fatto nel Novecento complica la soluzione del quesito.

La musica di Rota non nacque sotto alcuna stella: buona o cattiva che fosse. Non era solito guardare in cielo. Preferiva guardare in sé stesso. Ciò spiega la sua assenza dalla polverosa arena delle dispute estetiche. Ma la condizione più stupefacente fu il rispetto che la sua “inattualià” (ad altri costata la proscrizione) gli consentì, quasi unanimemente.